Scuola a rischio zero

[Ok, sono pronto ad altre accuse, ma… ma le pietre lanciatemi da bravi animatori del politicamente corretto, mi ha fatto venire in mente questa ormai vecchia riflessione che…]

Ci pensavo proprio oggi pensando ai miei figli. Alex ha 24 anni. Luca 22. Non hanno mai fatto a botte. Niente occhi neri. Niente sampietrini in testa. Niente corse pazze per sfuggire al branco assatanato. Niente…

Io, qualche volta, sono tornato a casa pesto e sanguinante. E mia madre, che non si beveva improbabili storie di cadute in bicicletta, mi pestava ancora senza tante spiegazioni.

Ricordo una delle tante volte che mi scazzottai con Luciano. Io riuscii a pestarlo un bel po’, ma lui, quasi mi cavò un occhio con un pugno disperato. Quando arrivai a casa, mia madre mi cazziò e me le diede di brutto con un bastone (relativamente piccolo e flessibile, però!).

Non aveva ancora finito che arrivò la madre di Luciano a protestare.
Mia madre la liquidò con veneta saggezza, e poi, mi risuonò ancora un po’.

Non c’era settimana nel mio villaggio della bassa dove non si registrasse fra noi mocciosi un qualche atto di ancestrale guerra.
E in vacanza, dalla nonna, ti alzavi all’alba per andare nella stalla con lo zio. E spalavi come un grande cariolate di letame.

Quando il destino baro volle per me un futuro da studente, mi guadagnai cinque anni di collegio e vari mesi d’iniziazione sadica alla mala education.

E poi gli scontri coi fascisti, i sampietrini in testa, le occupazioni oziose e i carrarmati di Bologna. E i servizi d’ordine con spranghe d’ordinanza. E qualche amico scivolato oltre il confine.

Il nonnismo codificato della scuola ufficiali lo sopportai – a quel punto – con stoico compiacimento. E la baionetta fra i denti.

Ci pensavo proprio oggi pensando ai miei figli. Non hanno mai fatto a botte. Non hanno mai preso botte. Non sono stati in collegio. Non faranno il militare. E nemmeno i loro amici, e gli amici degli amici.

E non sono sicuro che sia una bella cosa.

Perché al di là delle sparate mediatiche sul mediatico bullismo, stiamo cercando di costruire – nelle scuole – modelli di società a rischio zero. Ma temo che questo atteggiamento sia pericoloso.

Una vita senza rischi non esiste. E comunque non è vita.

Una scuola senza rischi non è scuola. Non scuola di vita, almeno.

My beautiful picture

Bisogna educare alla caduta

La mia leggera partecipazione alla sciocca catena santantoniana della neknomination ha sollevato un dibattito infinito. A tratti interessante. Ma più spesso astioso. E cattivo nei miei confronti.

Sono stato accusato di tutto. E di più (come ho già ricordato nel post precedente).

Sono stato denunciato come untore. Venditore di vizi in cerca di facile popolarità.

Non voglio difendermi. Non avrebbe senso.

Torno sull’argomento solo perché, in fondo, questo è un bel dibattito: un confronto intrigante: un discorso sul dialogo e sull’educazione. E sul perfetto educatore.

Io non so se esistono educatori perfetti: stando ai rimproveri di qualche collega, forse sì: forse esiste il docente (il genitore, l’amministratore) che non fuma, non beve, non impreca, non desidera la donna d’altri, divide l’etichetta di carta dalla bustina del tè per la differenziata, non prende psicofarmaci, non si incazza, crede nell’omeopatia, non molla un calcio in culo ai figli, spegne la luce dell’ufficio quando esce, ha tutte le fatture del dentista e tutte le ricevute del parrucchiere.

Io non sono perfetto. Né come umano, né come educatore.

E noi che non siamo perfetti, ogni tanto sbagliamo. Ogni tanto rischiamo. Ogni tanto cadiamo. E magari ci facciamo male. Molto male.

Ma forse è per questo che noi educatori imperfetti riusciamo talvolta a comprendere le adolescenziali imperfezioni.

Se un ragazzo non cade mai, non ha bisogno dell’educatore. E se cade, non ha bisogno di un educatore perfetto che gli ripete fino alla noia che non doveva cadere dopo avergli ripetuto fino alla noia che doveva stare in piedi. Magari camminando con gli anfibi sul filo teso sopra la nostra follia sociale. Se un ragazzo cade, noi dobbiamo aiutarlo a rialzarsi.

Bisogna educare alla caduta.

Per educare alla risalita. Fino a trovare un equilibrio il meno instabile possibile.

Certo la catena che mi ha coinvolto è stupida. E si presta alle facili rimostranze della gente sensata, e non solo dei moralisti. Nessuno mi ha costretto. Ero di fronte ad una scelta. Potevo fare una bravata da macho e scolarmi una pinta di rum e poi buttarmi in una piscina ghiacciata. Potevo semplicemente NON partecipare. Oppure potevo tentare di dimostrare che si può partecipare con ironia ed un pizzico di saggezza.

Di primo acchito avevo scelto la busta numero due. Poi, dopo varie elucubrazioni, ho scelto consapevolmente la terza via. Quella più difficile, per un educatore. Cercare di comprendere e mescolarsi con la vita, senza perdere la propria autorevolezza.

Essere autoritari è facile (lo dico da ex ufficiale dell’esercito!). Essere autorevoli è più complesso.

Certo potevo anche partecipare bevendo – con ironia – un succo di frutta. O un chinotto. O un tè al bergamotto. Ma sarei stato poco credibile agli occhi di chi mi conosce. E che sa che amo bere (senza ubriacarmi), che adoro pizzocheri e tortelli (senza esagerare), che mi piace guardare le belle donne (ma che non tradirei mai moglie), che spesso mi indigno (senza alzare le mani)…

Ma siamo sempre lì: per essere educatori bisogna essere autorevoli. Per essere autorevoli bisogna essere credibili. Per essere credibili bisogna fare i conti con i propri limiti. Ripensare alle proprie cadute per poter comprendere – prima di stigmatizzare – le cadute altrui. Io ci ho provato. Io ci provo. Consapevole che non è possibile costruire una scuola (di vita) senza rischi. Perché senza rischi non c’è crescita.

PS:

Una chiosa infine sull’accusa generica tipica degli educatori perfetti: chi partecipa alla neknomination è scemo (nella più benevola delle ipotesi) a prescindere.
Mentre penso che scemo a prescindere sia chi esprime giudizi a prescindere.La mia possibile nuora che mi ha nominato, è una ragazza intelligente, consapevole, educata, con una grande cultura. Come mio figlio che ho nominato. E le amiche che a sua volta Luca ha nominato (che, fra l’altro, hanno bevuto a goccia un’intera bottiglia di… succo di frutta!).
Uno non è stupido o intelligente perché è dentro o fuori la rete, perché partecipa o meno ad un gioco: uno è intelligente perché è intelligente. E se è intelligente è consapevole. E se è intelligente e consapevole vive dentro e fuori dalla rete. E se è intelligente e consapevole si fa influenzare dalle mode/ossessioni solo se vuole, quando vuole, e nel modo che vuole. Per cui io accetto tutte le critiche, ma non quella di essere un untore narciso e sprovveduto che diffonde in modo bieco mode ed ossessioni.
Io non credo di aver fatto una cosa sbagliata. È più difficile educare che proibire. È la cultura dello sballo che va contrastata, non l’accettazione consapevole e responsabile dei piaceri della vita. Chi ha una vera cultura del BUON VINO non si ubriaca. Ma, appunto, la parola magica è tutta qui: cultura! Buona cultura e buona vita

Mario Agati

Mario Agati

Tablet & Nuvole

La sostenibile leggerezza della rivoluzione digitale

Articolo pubblicato su “Viaggio in Terza Classe”     (sfoglia on line)

Dalle inquiete soglie delle sale insegnanti e negli spazi amplificati dei media si lanciano spesso grida agitate sull’insipienza culturale delle nuove generazioni. Si descrivono ragazzi sempre più in difficoltà a galleggiare fra la schiuma indistinta dei saperi digitali, sempre più sovraesposti ai linguaggi sincopati di propaggini elettroniche, sempre più estranei al pensiero sequenziale. Se il rischio dell’information overload è reale, la scuola – consapevole peraltro di aver perso il monopolio dell’informazione e dei modi di apprendere – deve imporsi come agenzia di sintesi e di ricomposizione olistica della possibile frammentazione cognitiva. Deve insegnare a gestire l’enorme flusso di informazioni che arriva della rete, per guidare gli alunni verso un pensiero strutturato e critico. È questo un impegno – etico e civico, prima ancora che professionale – fortemente auspicato anche dalle Indicazioni nazionali per il curricolo che assumono la perizia digitale come una delle competenze-chiave per l’apprendimento, raccomandano l’utilizzo consapevole delle tecnologie nella quotidiana prassi didattica e sanciscono che la “diffusione di tecnologie di informazione e di comunicazione è una grande opportunità e rappresenta la frontiera decisiva per la scuola”.

Una “grande opportunità”, appunto. E lo sforzo richiesto a noi insegnanti per raggiungere questa “frontiera decisiva” è soprattutto quello di capire che non è più tempo di fare gli apprendisti stregoni e di porci come l’avanguardia illuminata pronta a guidare il cambiamento. Ma che è tempo ormai di prendere semplicemente atto che il cambiamento è già avvenuto. Che il processo rivoluzionario si è ormai concluso. E che a noi non resta che trovare la saggezza, il coraggio e l’umiltà di adattarci alla nuova normalità disegnata dal digital lifestyle. Perché al di là di certi effetti collaterali e degli inevitabili problemi di assestamento, quella digitale è una rivoluzione buona e giusta. Una rivoluzione intrigante, leggera, inclusiva ed ecocompatibile. L’unica rivoluzione civile di questo periodo inquieto ed inquietante.

Del resto chi, come noi, ha la fortuna di mescolarsi quotidianamente a centinaia di ragazzi che googlano, youtubano, twittano, taggano, condividono, messaggiano, chattano e deambulano perennemente appesi alle cuffiette dell’ultimo smartphone non può che prendere atto con sorridente curiosità di questa mutazione antropologica che genera nuovi comportamenti, nuovi linguaggi, nuove narrazioni, nuovi sensi. Nuove avvincenti opportunità di abitare il tempo e lo spazio.

L’accelerazione finale di questa rivoluzione garbata si deve all’adozione generalizzata dell’interfaccia touch e alla conseguente disseminazione di una nuova generazione di device di cui l’iPad è l’indiscusso totem. E il tablet, appunto, è l’arma finale con cui i mutanti che respirano con le branchie di google colonizzeranno prima o poi anche gli analogici feudi scolastici. Perché il tablet è intelligenza, leggerezza, curiosità, bellezza, divertimento. Perché il tablet è immediatezza: lo tocchi e sei operativo (in classe, in piazza, in aereo, in balcone, a letto).

Il tablet si apre come un diario, si usa come un quaderno, si legge come un libro, si appoggia in ogni dove (sulle ginocchia, sul banco, sullo scalino, sul piumone), si ripone in qualsiasi zainetto. Con il tablet la scrittura diventa fluida e vaporosa. Con il tablet la lettura diventa facile e coinvolgente: si può orientare la pagina, ingrandire i caratteri, regolare la luminosità, sottolineare, evidenziare, chiosare, commentare, condividere, tradurre, ricercare.

Un tablet fa da biblioteca, da astuccio, da block notes, da laboratorio linguistico, da enciclopedia, da atlante, da dizionario. Con il tablet puoi disegnare, fotografare, filmare, registrare, ascoltare e fare musica. Con il tablet puoi tessere intriganti relazioni sentimentali: puoi leggere Leopardi ascoltando Chopin e sfogliando di tanto in tanto le malinconiche vedute di Frederich. Con il tablet navigare, creare, condividere è un gioco da ragazzi.

E poi ci sono le “nuvole”, in cui possiamo albergare buona parte dei nostri sogni e della nostra memoria. Sulle nuvole possiamo archiviare aforismi, poesie, romanzi, immagini, musica e video, per averli a disposizione sempre, comunque, ovunque. E su qualsiasi dispositivo. Grazie al cloud computing la propria libreria musicale o le foto delle vacanze, i compiti di italiano o gli appunti di filosofia possono essere caricati nella nuvola da un pc da tavolo, per poi essere scaricati e ascoltati o visionati su un tablet o su uno smartphone.

Ecco: l’unico vero concorrente del tablet è lo smartphone, soprattutto per i ragazzi che al momento lo trovano più mobile e più trendy. Anche perché uno smartphone sta più facilmente in tasca ed è più facile da mimetizzare sotto il banco o dietro l’astuccio mentre si chatta con l’amico alle spalle dell’insegnante che recita la sua accademica lezione. Ma fra uno smartphone di 5-6 pollici e un tablet di 7-10 pollici la differenza è minima e la sostanza è la stessa. Ci troviamo in ogni caso di fronte ad un talismano che marca definitivamente la dissonanza fra chi ha immaginato il mondo passeggiando fra carte, libri e biblioteche e chi è nato con il mondo in mano.

Va da sé che i due mondi non sono necessariamente escludenti: ci saranno sempre ragazzi che andranno a studiare in biblioteca con gli amici, che ameranno passeggiare per i chiostri antichi e che sfoglieranno con ammirazione libri preziosi e codici miniati. Solo che avranno con sé un Galaxy o un iPhone per fotografare, filmare, fotocopiare, prendere appunti, condividere sensazioni ed emozioni con amici sparsi per l’universo mondo. Perché i barbari digitali vanno fieri delle loro futuribili alchimie, ma non ambiscono ad assassinare il bello creato nei secoli dalle tribù gutemberghiane. E così dovrebbe succedere fin da subito nelle nostre aule: le nuove tecnologie non devono necessariamente fagocitare (tutte) le vecchie, ma dovrebbero almeno poterle affiancare, supportare, integrare, amplificare. È tempo, ormai, che tablet e nuvole abbiano a scuola almeno gli stessi diritti della penna e del gesso. E che i nostri ragazzi possano mettere nello zaino, assieme alle merendine, a qualche libro e all’astuccio, anche l’iPad.

Mi si dirà che il ministero e le altre istituzioni deputate stanno facendo sforzi titanici per diffondere nelle scuole il nuovo verbo digitale. Per il momento, però, nonostante proclami e convegni, l’unica tecnologia presente nella maggior parte delle classi è il cellulare che i ragazzi tengono falsamente spento in tasca o sotto il banco.  E se è vero che in molte scuole sono arrivate o stanno arrivando quantità industriali di LIM, è altrettanto vero che sono pochissimi gli insegnanti che le sanno usare. E che molti di quei pochi le usano in maniera impropria, per trasmettere contenuti, per fare vedere filmati e cose, per perpetrare di fatto la comunicazione uno-molti. In numerose aule le mitiche lavagne interattive si riducono in sostanza a banali superfici di proiezione per vecchi documentari o per stucchevoli sequenze di slides che dispensano i saperi sbriciolati nel grigiore degli elenchi puntati. O, nella migliore delle ipotesi, per erogare puntate di lezioni preconfezionate (learning object) con il relativo software proprietario. Altro che partecipazione, interazione e condivisione: alla leggerezza dell’intelligenza diffusa e condivisa si preferisce ancora una volta l’artiglieria pesante della logica frontale e trasmissiva. E la nuova tecnologia si presta così a fungere da inconsapevole tutela della vecchia didattica.

Non voglio con questo condannare senza appello le LIM, che sono in effetti marchingegni flessibili  e potenti, in grado di rendere comunque le nostre lezioni più attraenti e performanti. Ma se abbiamo modo di influire sulla definizione del nostro setting d’aula e non vogliamo proprio rinunciare alla LIM (magari perché ce la “regala” il ministero) prevediamo almeno che il grande schermo si possa interfacciare facilmente con i device mobili in mano agli studenti (non importa se della scuola o se di loro proprietà). Così anche i ragazzi, dalla loro postazione, potranno interagire con la lavagna e rendere più significativi i momenti di cooperazione e condivisione.

Perché i nostri ragazzi sono nativamente – e inconsapevolmente – portati ad imparare facendo, ad apprendere fra pari, ad usare interfacce interattive, a co-produrre contenuti sulla rete. E fanno fatica a limitarsi solo all’ascolto, a prendere appunti, a copiare dalla lavagna. D’altra parte noi docenti, anche quando subiamo il fascino delle meraviglie digitali, facciamo fatica ad adattare il nostro stile di insegnamento al loro stile di apprendimento. Eppure questo matrimonio fra diversi abiti mentali s’ha da fare. Pena la noia, la reciproca lamentazione e l’ulteriore impoverimento del dialogo educativo.

Cominciamo dunque dalla azione più semplice: prendere atto che quelle cose lì (tablet, smartphone, nuvole, app…) ci sono, sono belle, sono leggere, sono sorridenti, sono potenti e si possono usare anche a scuola. Il quando e soprattutto il come si possono e si devono usare lo stabilirà di volta in volta l’insegnante nostromo che deve saper governare la nave (classe) e la ciurma (ragazzi) dentro questo mare affascinante e tempestoso della conoscenza reticolare.

Ma proprio qui sta il nodo della questione: avere docenti all’altezza della svolta epocale di cui la rivoluzione digitale è solo una delle principali sfaccettature. Per questo è necessario ridare centralità alla figura del docente. Rivedere radicalmente il suo ruolo. Perché i gadget elettronici non sono la panacea di tutti i mali e da soli non bastano per riqualificare il processo formativo. Non esistono infatti tecnologie educative. Esistono educatori che usano le tecnologie – vecchie e nuove – per promuovere apprendimento.

E il problema della scuola non è la mancanza di tecnologia, ma è la mancanza di neuroni condivisi, di insegnanti aggiornati, di visioni pedagogiche adeguate, di strategie didattiche chiare. E in queste condizioni, la disseminazione bulgara di LIM (lavagne tutte uguali, con software proprietario che disegna pillole di lezioni tutte uguali, ed eventuali device tutti uguali con app tutte uguali) è inutile e talvolta dannosa: se il maestro-nostromo non domina i venti del web e non padroneggia gli strumenti di navigazione rischia di tracciare rotte devianti, d’impaludarsi nelle secche o, nella migliore delle ipotesi, di adagiarsi pigramente in una bonaccia perenne che spinge i ragazzi-marinai a fare qualcosa solo per ingannare il tempo, e non per navigare più o meno spediti verso obiettivi chiari ed ambiziosi.

Il tablet da solo non basta, dunque. I gadget elettronici sono investimenti inutili se non vengono inseriti in un processo formativo completamente rivisitato. Perché, ancora una volta, ciò che serve non è una rivoluzione tecnologica (peraltro già presente nelle tasche e nelle camerette dei nostri ragazzi), ma una rivoluzione culturale che incoraggi i docenti ad essere un po’ meno impiegati della conoscenza e un po’ più maestri di bottega. E che li renda consapevoli del loro indispensabile ruolo di co-costruttori di significato. Perché un bravo docente deve sapersi muovere con sicurezza negli ambiti disciplinari di competenza, deve progettare percorsi didattici organici e coerenti, deve occuparsi della solidità dei contenuti, ma deve anche saper riconoscere e sfruttare didatticamente i fantastici valori aggiunti della nuova dimensione culturale disegnata da reti, tablet e nuvole.

Solo così la scuola potrà finalmente valorizzare le insospettate potenzialità dei nostri ragazzi che hanno una predisposizione istintiva alla multimedialità e al melting pot, che sanno raccontare e raccontarsi per immagini, che manipolano senza remore materiali presi dal web per moltiplicarne implicazioni e possibilità espressive. E che hanno una straordinaria vitalità nel condividere e intrecciare pluralità infinite di legami multiformi.

E solo così la scuola saprà contrastare i rischi cognitivi di quei ragazzi che, abitando spazi socioculturali più deboli, non riescono ad arginare la marea quotidiana di input disgregati, utilizzano le propaggini elettroniche con faciloneria e superficialità, sono in palese deficit di autonomia critica e partoriscono pensieri frammentati.

Perché, come ricordavo all’inizio citando le Indicazioni, tocca alla scuola smussare le disuguaglianze, difendere spazi di riflessione, far crescere consapevolezze, allenare il pensiero sequenziale, tessere trame olistiche, recuperare fili narrativi e costruire competenze. Sia analogiche che digitali. Perché una testa ben fatta, oggi, si favorisce solo nella fusione fra i due modi di abitare il mondo.

Articolo pubblicato su “Viaggio in Terza Classe”     (sfoglia on line)

 

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Il cinismo logora chi non ce l’ha

L’amica nominata nel precedente post, mi risponde malinconicamente piccata per il mio provocatorio cinismo:

Caro Mario, sai come credo andrà a finire col cinismo? Nulla serve, le tecnologie sono soldi buttati, i ragazzi non imparano per definizione, i giovani d’oggi non sono come quelli di una volta…. Frontale , quindi! Bisogna tornare al vero e unico modo d’insegnare! Ed avremo ottimi ringraziamenti da chi gestisce le scuole private, le uniche realtà che saranno al passo coi tempi. Tu parli di leggerezza nell’uso delle tecnologie: condivido, dovremmo averla. Ma chi non ce l’ha ancora (io) può provare, sperimentare, ricercare? Ricerca di buone pratiche anche con l’uso delle TIC e delle LIM: perché no? Perché si rompono?

Cara Elena, temo aiuti più una buona dose di cinismo che girare con gli scoiattolini dell’amore sulle spalle. I colleghi come te sono preziosi, i soldi per le tecnologie sono buttati solo a scuola, per fortuna i giovani d’oggi non sono più quelli di una volta e le sperimentazioni sono auspicabili. Ma quando sono sperimentazioni.

Nella scuola italiana invece regna l’ossimoro gattopardesco dello sperimentalismo perenne.

Spesso affiancato dallo sperimentalismo improvvisato e nevrotico.

Se gli insegnanti che sperimentano sono perennemente incazzosi perché non riescono a connettersi, perché il PC non mi legge il CD, perché il programma non è aggiornato, perché la LIM non è allineata, perché il bidello non bidella, e il tecnico non tecnica… forse è meglio lavorare con lo stilo e la tavoletta d’argilla, ma in leggerezza. Tutto qui.

Io continuerò a sperimentare (col sorriso!), tu continuerai a sperimentare (col sorriso?), egli continuerà a sperimentare, noi continueremo a sperimentare… e i ragazzi – quelli più svantaggiati, ovviamente – continueranno a sperimentare l’inconsistenza della nostra improvvisata sperimentazione.

Un abbraccio 🙂

[PS: in effetti io non ho nulla contro le lezioni frontali se non… se non che, purtroppo, sono pochissimi gli insegnanti che sanno fare una lezione frontale efficace]

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gatto-pardo(n)

Anche ieri sono capitato nella classe di Elena, una bravissima collega che da anni combatte per insegnare con le nuove diavolerie elettroniche. E anche ieri Elena era disperata perché anche ieri la LIM era impianta. Come un mese fa. Come il prossimo mese.

Ho fatto lo stronzo, ricordandole ciò che vado ricordando da tempo. Che la disseminazione dissennata di LIM in giro per giurassiche aule di giurassiche scuole con giurassici docenti è utile solo per i giurassici venditori di LIM. E a regime sarà l’ennesima, postmoderna, sarcastica, involontaria mostra di cadaveri di latta e silicio nei giardini ottocenteschi dei nostri educhifici. Dove ogni tanto si cambia qualcosa perché non cambi nulla.

agati_bici

Agati 4ever? (Ma anche no!)

grazie deSSSlienSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSSS

Doctor Agati e mister House

Grazie Deborahhhhhhhhhhhhhhh

Agati Nostro che sei per terra…

di quella insospettabile monella della Elisa Ansaloni…

Addio, prof!!!!

Potete lasciare anche voi un messaggio di addio al vecchio prof!! Buona vita.