La sostenibile leggerezza della rivoluzione digitale
Dalle inquiete soglie delle sale insegnanti e negli spazi amplificati dei media si lanciano spesso grida agitate sull’insipienza culturale delle nuove generazioni. Si descrivono ragazzi sempre più in difficoltà a galleggiare fra la schiuma indistinta dei saperi digitali, sempre più sovraesposti ai linguaggi sincopati di propaggini elettroniche, sempre più estranei al pensiero sequenziale. Se il rischio dell’information overload è reale, la scuola – consapevole peraltro di aver perso il monopolio dell’informazione e dei modi di apprendere – deve imporsi come agenzia di sintesi e di ricomposizione olistica della possibile frammentazione cognitiva. Deve insegnare a gestire l’enorme flusso di informazioni che arriva della rete, per guidare gli alunni verso un pensiero strutturato e critico. È questo un impegno – etico e civico, prima ancora che professionale – fortemente auspicato anche dalle Indicazioni nazionali per il curricolo che assumono la perizia digitale come una delle competenze-chiave per l’apprendimento, raccomandano l’utilizzo consapevole delle tecnologie nella quotidiana prassi didattica e sanciscono che la “diffusione di tecnologie di informazione e di comunicazione è una grande opportunità e rappresenta la frontiera decisiva per la scuola”.
Una “grande opportunità”, appunto. E lo sforzo richiesto a noi insegnanti per raggiungere questa “frontiera decisiva” è soprattutto quello di capire che non è più tempo di fare gli apprendisti stregoni e di porci come l’avanguardia illuminata pronta a guidare il cambiamento. Ma che è tempo ormai di prendere semplicemente atto che il cambiamento è già avvenuto. Che il processo rivoluzionario si è ormai concluso. E che a noi non resta che trovare la saggezza, il coraggio e l’umiltà di adattarci alla nuova normalità disegnata dal digital lifestyle. Perché al di là di certi effetti collaterali e degli inevitabili problemi di assestamento, quella digitale è una rivoluzione buona e giusta. Una rivoluzione intrigante, leggera, inclusiva ed ecocompatibile. L’unica rivoluzione civile di questo periodo inquieto ed inquietante.
Del resto chi, come noi, ha la fortuna di mescolarsi quotidianamente a centinaia di ragazzi che googlano, youtubano, twittano, taggano, condividono, messaggiano, chattano e deambulano perennemente appesi alle cuffiette dell’ultimo smartphone non può che prendere atto con sorridente curiosità di questa mutazione antropologica che genera nuovi comportamenti, nuovi linguaggi, nuove narrazioni, nuovi sensi. Nuove avvincenti opportunità di abitare il tempo e lo spazio.
L’accelerazione finale di questa rivoluzione garbata si deve all’adozione generalizzata dell’interfaccia touch e alla conseguente disseminazione di una nuova generazione di device di cui l’iPad è l’indiscusso totem. E il tablet, appunto, è l’arma finale con cui i mutanti che respirano con le branchie di google colonizzeranno prima o poi anche gli analogici feudi scolastici. Perché il tablet è intelligenza, leggerezza, curiosità, bellezza, divertimento. Perché il tablet è immediatezza: lo tocchi e sei operativo (in classe, in piazza, in aereo, in balcone, a letto).
Il tablet si apre come un diario, si usa come un quaderno, si legge come un libro, si appoggia in ogni dove (sulle ginocchia, sul banco, sullo scalino, sul piumone), si ripone in qualsiasi zainetto. Con il tablet la scrittura diventa fluida e vaporosa. Con il tablet la lettura diventa facile e coinvolgente: si può orientare la pagina, ingrandire i caratteri, regolare la luminosità, sottolineare, evidenziare, chiosare, commentare, condividere, tradurre, ricercare.
Un tablet fa da biblioteca, da astuccio, da block notes, da laboratorio linguistico, da enciclopedia, da atlante, da dizionario. Con il tablet puoi disegnare, fotografare, filmare, registrare, ascoltare e fare musica. Con il tablet puoi tessere intriganti relazioni sentimentali: puoi leggere Leopardi ascoltando Chopin e sfogliando di tanto in tanto le malinconiche vedute di Frederich. Con il tablet navigare, creare, condividere è un gioco da ragazzi.
E poi ci sono le “nuvole”, in cui possiamo albergare buona parte dei nostri sogni e della nostra memoria. Sulle nuvole possiamo archiviare aforismi, poesie, romanzi, immagini, musica e video, per averli a disposizione sempre, comunque, ovunque. E su qualsiasi dispositivo. Grazie al cloud computing la propria libreria musicale o le foto delle vacanze, i compiti di italiano o gli appunti di filosofia possono essere caricati nella nuvola da un pc da tavolo, per poi essere scaricati e ascoltati o visionati su un tablet o su uno smartphone.
Ecco: l’unico vero concorrente del tablet è lo smartphone, soprattutto per i ragazzi che al momento lo trovano più mobile e più trendy. Anche perché uno smartphone sta più facilmente in tasca ed è più facile da mimetizzare sotto il banco o dietro l’astuccio mentre si chatta con l’amico alle spalle dell’insegnante che recita la sua accademica lezione. Ma fra uno smartphone di 5-6 pollici e un tablet di 7-10 pollici la differenza è minima e la sostanza è la stessa. Ci troviamo in ogni caso di fronte ad un talismano che marca definitivamente la dissonanza fra chi ha immaginato il mondo passeggiando fra carte, libri e biblioteche e chi è nato con il mondo in mano.
Va da sé che i due mondi non sono necessariamente escludenti: ci saranno sempre ragazzi che andranno a studiare in biblioteca con gli amici, che ameranno passeggiare per i chiostri antichi e che sfoglieranno con ammirazione libri preziosi e codici miniati. Solo che avranno con sé un Galaxy o un iPhone per fotografare, filmare, fotocopiare, prendere appunti, condividere sensazioni ed emozioni con amici sparsi per l’universo mondo. Perché i barbari digitali vanno fieri delle loro futuribili alchimie, ma non ambiscono ad assassinare il bello creato nei secoli dalle tribù gutemberghiane. E così dovrebbe succedere fin da subito nelle nostre aule: le nuove tecnologie non devono necessariamente fagocitare (tutte) le vecchie, ma dovrebbero almeno poterle affiancare, supportare, integrare, amplificare. È tempo, ormai, che tablet e nuvole abbiano a scuola almeno gli stessi diritti della penna e del gesso. E che i nostri ragazzi possano mettere nello zaino, assieme alle merendine, a qualche libro e all’astuccio, anche l’iPad.
Mi si dirà che il ministero e le altre istituzioni deputate stanno facendo sforzi titanici per diffondere nelle scuole il nuovo verbo digitale. Per il momento, però, nonostante proclami e convegni, l’unica tecnologia presente nella maggior parte delle classi è il cellulare che i ragazzi tengono falsamente spento in tasca o sotto il banco. E se è vero che in molte scuole sono arrivate o stanno arrivando quantità industriali di LIM, è altrettanto vero che sono pochissimi gli insegnanti che le sanno usare. E che molti di quei pochi le usano in maniera impropria, per trasmettere contenuti, per fare vedere filmati e cose, per perpetrare di fatto la comunicazione uno-molti. In numerose aule le mitiche lavagne interattive si riducono in sostanza a banali superfici di proiezione per vecchi documentari o per stucchevoli sequenze di slides che dispensano i saperi sbriciolati nel grigiore degli elenchi puntati. O, nella migliore delle ipotesi, per erogare puntate di lezioni preconfezionate (learning object) con il relativo software proprietario. Altro che partecipazione, interazione e condivisione: alla leggerezza dell’intelligenza diffusa e condivisa si preferisce ancora una volta l’artiglieria pesante della logica frontale e trasmissiva. E la nuova tecnologia si presta così a fungere da inconsapevole tutela della vecchia didattica.
Non voglio con questo condannare senza appello le LIM, che sono in effetti marchingegni flessibili e potenti, in grado di rendere comunque le nostre lezioni più attraenti e performanti. Ma se abbiamo modo di influire sulla definizione del nostro setting d’aula e non vogliamo proprio rinunciare alla LIM (magari perché ce la “regala” il ministero) prevediamo almeno che il grande schermo si possa interfacciare facilmente con i device mobili in mano agli studenti (non importa se della scuola o se di loro proprietà). Così anche i ragazzi, dalla loro postazione, potranno interagire con la lavagna e rendere più significativi i momenti di cooperazione e condivisione.
Perché i nostri ragazzi sono nativamente – e inconsapevolmente – portati ad imparare facendo, ad apprendere fra pari, ad usare interfacce interattive, a co-produrre contenuti sulla rete. E fanno fatica a limitarsi solo all’ascolto, a prendere appunti, a copiare dalla lavagna. D’altra parte noi docenti, anche quando subiamo il fascino delle meraviglie digitali, facciamo fatica ad adattare il nostro stile di insegnamento al loro stile di apprendimento. Eppure questo matrimonio fra diversi abiti mentali s’ha da fare. Pena la noia, la reciproca lamentazione e l’ulteriore impoverimento del dialogo educativo.
Cominciamo dunque dalla azione più semplice: prendere atto che quelle cose lì (tablet, smartphone, nuvole, app…) ci sono, sono belle, sono leggere, sono sorridenti, sono potenti e si possono usare anche a scuola. Il quando e soprattutto il come si possono e si devono usare lo stabilirà di volta in volta l’insegnante nostromo che deve saper governare la nave (classe) e la ciurma (ragazzi) dentro questo mare affascinante e tempestoso della conoscenza reticolare.
Ma proprio qui sta il nodo della questione: avere docenti all’altezza della svolta epocale di cui la rivoluzione digitale è solo una delle principali sfaccettature. Per questo è necessario ridare centralità alla figura del docente. Rivedere radicalmente il suo ruolo. Perché i gadget elettronici non sono la panacea di tutti i mali e da soli non bastano per riqualificare il processo formativo. Non esistono infatti tecnologie educative. Esistono educatori che usano le tecnologie – vecchie e nuove – per promuovere apprendimento.
E il problema della scuola non è la mancanza di tecnologia, ma è la mancanza di neuroni condivisi, di insegnanti aggiornati, di visioni pedagogiche adeguate, di strategie didattiche chiare. E in queste condizioni, la disseminazione bulgara di LIM (lavagne tutte uguali, con software proprietario che disegna pillole di lezioni tutte uguali, ed eventuali device tutti uguali con app tutte uguali) è inutile e talvolta dannosa: se il maestro-nostromo non domina i venti del web e non padroneggia gli strumenti di navigazione rischia di tracciare rotte devianti, d’impaludarsi nelle secche o, nella migliore delle ipotesi, di adagiarsi pigramente in una bonaccia perenne che spinge i ragazzi-marinai a fare qualcosa solo per ingannare il tempo, e non per navigare più o meno spediti verso obiettivi chiari ed ambiziosi.
Il tablet da solo non basta, dunque. I gadget elettronici sono investimenti inutili se non vengono inseriti in un processo formativo completamente rivisitato. Perché, ancora una volta, ciò che serve non è una rivoluzione tecnologica (peraltro già presente nelle tasche e nelle camerette dei nostri ragazzi), ma una rivoluzione culturale che incoraggi i docenti ad essere un po’ meno impiegati della conoscenza e un po’ più maestri di bottega. E che li renda consapevoli del loro indispensabile ruolo di co-costruttori di significato. Perché un bravo docente deve sapersi muovere con sicurezza negli ambiti disciplinari di competenza, deve progettare percorsi didattici organici e coerenti, deve occuparsi della solidità dei contenuti, ma deve anche saper riconoscere e sfruttare didatticamente i fantastici valori aggiunti della nuova dimensione culturale disegnata da reti, tablet e nuvole.
Solo così la scuola potrà finalmente valorizzare le insospettate potenzialità dei nostri ragazzi che hanno una predisposizione istintiva alla multimedialità e al melting pot, che sanno raccontare e raccontarsi per immagini, che manipolano senza remore materiali presi dal web per moltiplicarne implicazioni e possibilità espressive. E che hanno una straordinaria vitalità nel condividere e intrecciare pluralità infinite di legami multiformi.
E solo così la scuola saprà contrastare i rischi cognitivi di quei ragazzi che, abitando spazi socioculturali più deboli, non riescono ad arginare la marea quotidiana di input disgregati, utilizzano le propaggini elettroniche con faciloneria e superficialità, sono in palese deficit di autonomia critica e partoriscono pensieri frammentati.
Perché, come ricordavo all’inizio citando le Indicazioni, tocca alla scuola smussare le disuguaglianze, difendere spazi di riflessione, far crescere consapevolezze, allenare il pensiero sequenziale, tessere trame olistiche, recuperare fili narrativi e costruire competenze. Sia analogiche che digitali. Perché una testa ben fatta, oggi, si favorisce solo nella fusione fra i due modi di abitare il mondo.
Articolo pubblicato su “Viaggio in Terza Classe” (sfoglia on line)