Storia di aspirapolveri, tablet e pappardelle

Io ero uno di quei bravi maschietti che si davano da fare (anche) in casa. Tiravo di tanto in tanto l’aspirapolvere, appaiavo le calze, talvolta cucinavo, annaffiavo i gerani, dipingevo pareti, montavo mobili, sturavo lavandini, sistemavo gli impianti elettrici, aggiustavo tapparelle, riparavo gli elettrodomestici…

Poi mi sono riempito la vita in altro modo e non ho più tempo per i ciappini di casa. E così mia moglie mi sassa ogni giorno con le camere che sono da pittare, e i rubinetti che perdono, e le porte che cigolano, e la lavastoviglie che non funziona, e l’aspirapolvere che s’accende a intermittenza… E visto che io non sono più ligio al dovere casalingo, propone ad ogni passo di chiamare l’imbianchino, e l’idraulico, e di comperare la lavastoviglie nuova e…
Ma io – in questo un po’ scozzese – resisto con un muro di politiche promesse: non ti preoccupare, tesoro, domani, o posdomani, o la prossima settimana, o la prossima estate…

Questa mattina l’ho vista trafficare con l’Ipad: stava confrontando i prezzi dei meglio aspirapolvere che ci sono sul mercato. E me li snocciola quasi ridendo. Trattengo il fiato e anche qualcos’altro. Poi corro a smontare l’aspirapolvere acciaccato. Rimetto a posto la guarnizione, pulisco il filtro, sostituisco la spina e in meno di mezzora la creatura torna a respirare a pieni watt.

Mia moglie sorride mentre smanetta ancora con l’Ipad: questa volta sta guardando gli ultimi modelli di ariane lavastoviglie. Mi precipito in cucina. Sposto la lavastoviglie, la apro, la corico, la studio, la provo… e mi arrendo. Capisco che in effetti è giunta ahimè al fin della sua vita. Va bene, amore – dico – dopopranzo andiamo a MediaWorld.

Vado finalmente a lavarmi e mi preparo per andare in piazza quando mi scappa ancora l’occhio su Fiorenza che ha gli occhi ancora nell’Ipad. Mi sale la pressione e mi scende un po’ di bile. M’avvicino bieco al pericoloso duo pronto a sfogare tutta la mia educazione da bar sport e da balera. Ma per fortuna lo sguardo s’incolla al poetico titolo della schermata luminosa: pappardelle con funghi porcini e bresaola.

Riprendo fiato. Sorrido dentro me. La bacio sui capelli. E m’incammino leggero verso il centro del paese pensando al vino da abbinare.

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Poi piovve dentro a l’alta fantasia

“Poi piovve dentro a l’alta fantasia” è il verso di Dante, tratto dal XVII canto del Purgatorio, che Italo Calvino sceglie per introdurre la lezione dedicata alla Visibilità nell’ambito delle Charles Eliot Norton Poetry Lectures dell’Università di Harvard cui è stato invitato per l’anno accademico 1985-86.

La lettura di quel verso si trasforma in “constatazione”: “La fantasia – chiosa Calvino – è un posto dove ci piove dentro”. È dunque una specie di luogo naturale, interno ma nello stesso tempo aperto all’interferenza degli elementi.

Non so perché mi è venuto in mente oggi questo verso. Forse perché stavo correggendo i temi dei miei NUOVi ragazzi di terza. Che scrivono robe seriose, partoriscono periodi lunghi, s’innamorano di parolone desuete. E che sono stati programmati all’idea che un “tema” da liceo deve essere lungo, complesso, verboso, privo di di pioggia e di vapori d’anima. E, naturalmente, che non si inizia né si finisce un periodo con la e.

Così, ho pensato a Calvino. Alle sue intriganti lezioni americane. Alla sua idea di scrittura che nuota attorno ad oasi di idee azzurre: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità.

“DOPO QUARANT’ANNI CHE SCRIVO FICTION, DOPO AVER ESPLORATO VARIE STRADE E COMPIUTO ESPERIMENTI DI DIVERSI, È VENUTA L’ORA CHE IO CERCHI UNA DEFINIZIONE COMPLESSIVA PER IL MIO LAVORO; PROPORREI QUESTA: LA MIA OPERAZIONE È STATA IL PIÙ DELLE VOLTE UNA SOTTRAZIONE DI PESO” (LEGGEREZZA)

“MI LIMITERÒ A DIRVI CHE SOGNO IMMENSE COSMOLOGIE, SAGHE ED EPOPEE RACCHIUSE NELLA DIMENSIONE DI UN’EPIGRAMMA” (RAPIDITÀ)

“COME HOFMANNSTHAL HA DETTO: ‘LA PROFONDITÀ VA NASCOSTA. DOVE? ALLA SUPERFICE’. E WITTGENSTEIN ANDAVA ANCORA PIÙ IN LÀ DI HOFMANNSTHAL, QUANDO DICEVA: ‘CIÒ CHE È NASCOSTO, NON CI INTERESSA’ (ESATTEZZA)

“C’È UN VERSO DI DANTE NEL PURGATORIO (XVII, 25) CHE DICE: ‘POI PIOVVE DENTRO A L’ALTA FANTASIA’.  (VISIBILITÀ)

“OGNI VITA È UN’ENCICLOPEDIA, UNA BIBLIOTECA, UN INVENTARIO D’OGGETTI, UN CAMPIONARIO DI STILI, DOVE TUTTO PUÒ ESSERE CONTINUAMENTE RIMESCOLATO E RIORDINATO IN TUTTI I MODI POSSIBILI” (MOLTEPLICITÀ)

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Scuola a rischio zero

[Ok, sono pronto ad altre accuse, ma… ma le pietre lanciatemi da bravi animatori del politicamente corretto, mi ha fatto venire in mente questa ormai vecchia riflessione che…]

Ci pensavo proprio oggi pensando ai miei figli. Alex ha 24 anni. Luca 22. Non hanno mai fatto a botte. Niente occhi neri. Niente sampietrini in testa. Niente corse pazze per sfuggire al branco assatanato. Niente…

Io, qualche volta, sono tornato a casa pesto e sanguinante. E mia madre, che non si beveva improbabili storie di cadute in bicicletta, mi pestava ancora senza tante spiegazioni.

Ricordo una delle tante volte che mi scazzottai con Luciano. Io riuscii a pestarlo un bel po’, ma lui, quasi mi cavò un occhio con un pugno disperato. Quando arrivai a casa, mia madre mi cazziò e me le diede di brutto con un bastone (relativamente piccolo e flessibile, però!).

Non aveva ancora finito che arrivò la madre di Luciano a protestare.
Mia madre la liquidò con veneta saggezza, e poi, mi risuonò ancora un po’.

Non c’era settimana nel mio villaggio della bassa dove non si registrasse fra noi mocciosi un qualche atto di ancestrale guerra.
E in vacanza, dalla nonna, ti alzavi all’alba per andare nella stalla con lo zio. E spalavi come un grande cariolate di letame.

Quando il destino baro volle per me un futuro da studente, mi guadagnai cinque anni di collegio e vari mesi d’iniziazione sadica alla mala education.

E poi gli scontri coi fascisti, i sampietrini in testa, le occupazioni oziose e i carrarmati di Bologna. E i servizi d’ordine con spranghe d’ordinanza. E qualche amico scivolato oltre il confine.

Il nonnismo codificato della scuola ufficiali lo sopportai – a quel punto – con stoico compiacimento. E la baionetta fra i denti.

Ci pensavo proprio oggi pensando ai miei figli. Non hanno mai fatto a botte. Non hanno mai preso botte. Non sono stati in collegio. Non faranno il militare. E nemmeno i loro amici, e gli amici degli amici.

E non sono sicuro che sia una bella cosa.

Perché al di là delle sparate mediatiche sul mediatico bullismo, stiamo cercando di costruire – nelle scuole – modelli di società a rischio zero. Ma temo che questo atteggiamento sia pericoloso.

Una vita senza rischi non esiste. E comunque non è vita.

Una scuola senza rischi non è scuola. Non scuola di vita, almeno.

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Bisogna educare alla caduta

La mia leggera partecipazione alla sciocca catena santantoniana della neknomination ha sollevato un dibattito infinito. A tratti interessante. Ma più spesso astioso. E cattivo nei miei confronti.

Sono stato accusato di tutto. E di più (come ho già ricordato nel post precedente).

Sono stato denunciato come untore. Venditore di vizi in cerca di facile popolarità.

Non voglio difendermi. Non avrebbe senso.

Torno sull’argomento solo perché, in fondo, questo è un bel dibattito: un confronto intrigante: un discorso sul dialogo e sull’educazione. E sul perfetto educatore.

Io non so se esistono educatori perfetti: stando ai rimproveri di qualche collega, forse sì: forse esiste il docente (il genitore, l’amministratore) che non fuma, non beve, non impreca, non desidera la donna d’altri, divide l’etichetta di carta dalla bustina del tè per la differenziata, non prende psicofarmaci, non si incazza, crede nell’omeopatia, non molla un calcio in culo ai figli, spegne la luce dell’ufficio quando esce, ha tutte le fatture del dentista e tutte le ricevute del parrucchiere.

Io non sono perfetto. Né come umano, né come educatore.

E noi che non siamo perfetti, ogni tanto sbagliamo. Ogni tanto rischiamo. Ogni tanto cadiamo. E magari ci facciamo male. Molto male.

Ma forse è per questo che noi educatori imperfetti riusciamo talvolta a comprendere le adolescenziali imperfezioni.

Se un ragazzo non cade mai, non ha bisogno dell’educatore. E se cade, non ha bisogno di un educatore perfetto che gli ripete fino alla noia che non doveva cadere dopo avergli ripetuto fino alla noia che doveva stare in piedi. Magari camminando con gli anfibi sul filo teso sopra la nostra follia sociale. Se un ragazzo cade, noi dobbiamo aiutarlo a rialzarsi.

Bisogna educare alla caduta.

Per educare alla risalita. Fino a trovare un equilibrio il meno instabile possibile.

Certo la catena che mi ha coinvolto è stupida. E si presta alle facili rimostranze della gente sensata, e non solo dei moralisti. Nessuno mi ha costretto. Ero di fronte ad una scelta. Potevo fare una bravata da macho e scolarmi una pinta di rum e poi buttarmi in una piscina ghiacciata. Potevo semplicemente NON partecipare. Oppure potevo tentare di dimostrare che si può partecipare con ironia ed un pizzico di saggezza.

Di primo acchito avevo scelto la busta numero due. Poi, dopo varie elucubrazioni, ho scelto consapevolmente la terza via. Quella più difficile, per un educatore. Cercare di comprendere e mescolarsi con la vita, senza perdere la propria autorevolezza.

Essere autoritari è facile (lo dico da ex ufficiale dell’esercito!). Essere autorevoli è più complesso.

Certo potevo anche partecipare bevendo – con ironia – un succo di frutta. O un chinotto. O un tè al bergamotto. Ma sarei stato poco credibile agli occhi di chi mi conosce. E che sa che amo bere (senza ubriacarmi), che adoro pizzocheri e tortelli (senza esagerare), che mi piace guardare le belle donne (ma che non tradirei mai moglie), che spesso mi indigno (senza alzare le mani)…

Ma siamo sempre lì: per essere educatori bisogna essere autorevoli. Per essere autorevoli bisogna essere credibili. Per essere credibili bisogna fare i conti con i propri limiti. Ripensare alle proprie cadute per poter comprendere – prima di stigmatizzare – le cadute altrui. Io ci ho provato. Io ci provo. Consapevole che non è possibile costruire una scuola (di vita) senza rischi. Perché senza rischi non c’è crescita.

PS:

Una chiosa infine sull’accusa generica tipica degli educatori perfetti: chi partecipa alla neknomination è scemo (nella più benevola delle ipotesi) a prescindere.
Mentre penso che scemo a prescindere sia chi esprime giudizi a prescindere.La mia possibile nuora che mi ha nominato, è una ragazza intelligente, consapevole, educata, con una grande cultura. Come mio figlio che ho nominato. E le amiche che a sua volta Luca ha nominato (che, fra l’altro, hanno bevuto a goccia un’intera bottiglia di… succo di frutta!).
Uno non è stupido o intelligente perché è dentro o fuori la rete, perché partecipa o meno ad un gioco: uno è intelligente perché è intelligente. E se è intelligente è consapevole. E se è intelligente e consapevole vive dentro e fuori dalla rete. E se è intelligente e consapevole si fa influenzare dalle mode/ossessioni solo se vuole, quando vuole, e nel modo che vuole. Per cui io accetto tutte le critiche, ma non quella di essere un untore narciso e sprovveduto che diffonde in modo bieco mode ed ossessioni.
Io non credo di aver fatto una cosa sbagliata. È più difficile educare che proibire. È la cultura dello sballo che va contrastata, non l’accettazione consapevole e responsabile dei piaceri della vita. Chi ha una vera cultura del BUON VINO non si ubriaca. Ma, appunto, la parola magica è tutta qui: cultura! Buona cultura e buona vita

Mario Agati

Mario Agati

di vino, di sballo, di frati e di pavidi educatori

Nominato da una mia possibile nuora, ho accettato pubblicamente la sfida. Un gioco che mi dicono si chiami “NekNomination”. Si tratta, in pratica, di bere un bicchiere di qualcosa di alcolico a goccia. Cioè tutto d’un fiato. E poi di pubblicare il video dell’impresa su facebook e di nominare altri tre partecipanti. Una catena di santantonio un po’ cretina e, dicono, pericolosa.

La mia prima reazione è stata quella di non stare al gioco. In fondo, mi sono detto, sono un educatore. Anzi: un educatore al cubo: sono papà, insegnante, vicepreside. E persino amministratore di una cittadina ridente ed importante.

Ma poi ci ho ripensato. Perché, in fondo, rinunciare sarebbe stato un atteggiamento farisaico. Da sepolcro imbiancato. Perché a me piace bere. Una sorsata di birra ghiacciata in piena estate. Un aperitivo con gli amici sul far della sera. Un buon bicchiere di vino rosso nelle cene di famiglia.

L’unico problema me lo poneva la modalità. Il fatto di bere a goccia, tutto d’un fiato. Che per il vino, si sa, è una bestemmia. Perché il vino va centellinato, sorseggiato, gustato con la dovuta lentezza.

Ma anche questo non mi sembrava sufficiente per rifiutare l’invito. Perché non mi è mai piaciuto passare per censore. Perché mi piace mescolarmi coi ragazzi e con la vita. Perché è più facile stare in tribuna che rischiare nell’arena. Perché è più facile proibire che educare.

Perché è la cultura dello sballo che va contrastata,
non l’accettazione consapevole e responsabile dei piaceri della vita.

Così ho scelto accuratamente il vino. Un Gewurztraminer dell’Abbazia di Novacella. Un vino che richiama la bellezza delle valli alpine. Un vino che richiama la lentezza e la saggezza di antiche generazioni di monaci. Un vino che profuma di prati e di poesia. E l’ho bevuto. D’un fiato, sì, per stare al gioco. Ma lentamente. E formulando sereni auspici per una buona vita.

Poi, alla schiera di detrattori che hanno censurato il mio gesto, ho suggerito una lettura. Di un altro monaco benedetto. Che ha scritto parole di saggezza sul buon bere. Che poi, a pensarci bene, sono parole di saggezza sull’educazione.

Ogni genitore, ogni insegnante, ogni potenziale educatore dovrebbe trascrivere queste parole nella propria mente. E recitarle a memoria, prima di profferir sentenze.

“Certo, il vino richiede misura, esige responsabilità, e il gustarlo diventa un’arte quando si è capaci di giungere al punto di sobria ebbrezza in cui ci si libera dalla compostezza senza cedere a un movimento sfrenato. Un equilibrio difficile, che richiede un apprendistato nel bere il vino: nessuno impara da sé a goderne.

Occorre qualcuno che educhi chi è giovane a bere con intelligenza, per acquistare libertà e non per annegarsi nell’oblio, per condividere la gioia e non per sfidare se stessi, per gustare la genuinità e non per smarrirsi nei miscugli.

Esercitarsi in questo senso significa apprendere, proprio attraverso il vino l’arte dell’autocontrollo, quell’arte che fornisce alla vita il senso della misura, l’accettazione del limite, l’accesso alla libertà che non degenera.

Anche per questo il vino nella Bibbia è metafora della sapienza; c’è addirittura una convergenza tra vino e sapienza nel rallegrare la vita dell’uomo, nell’accendere un fuoco nel suo cuore, nel dare senso all’esistenza […]

Nella mia comunità facciamo in modo che quando lo beviamo sia vino di qualità, vino scelto, così che quando prendiamo il bicchiere in mano siamo stupiti dai profumi, quando lo accostiamo alle labbra ci sorga spontanea una benedizione, quando il vino giunge al palato e sulla lingua il gusto ci faccia un po’ sognare…” Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, in “Ogni cosa alla sua stagione

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In fondo, il libro di testo è…

Domani subirò un’altra riunione del gruppo monodisciplinare. E ancora parleremo di libri di testo: l’avveniristica tecnologia educativa che imperversa come sempre nelle nostre paludate aule scolastiche. Di ogni ordine e grado.

E così mi sono ricordato di una mia antica battuta – confesso un po’ guascona – che mi scappò dall’animo in una  analoga riunione di tanto tempo fa. Quando la dotta coordinatrice  – vedendomi piuttosto distratto dal mio nuovo portatile Toshiba – mi chiese di esprimermi in merito alla scelta del testo di letteratura, la risposta se ne è uscita spontanea:

– Per me non è un problema: datemi qualsiasi libro e vi ci abbasserò il mondo!

Le esimie colleghe di riunione mi hanno guardato un poco strano e poi hanno continuato a dibattere sull’opportunità di ritornare ad un moderato storicismo o se perseverare in certo formalismo o se sposare il compromesso dei sei volumi luperiniani o se…

Sono passati anni. E anni. Ma siamo ancora lì. Al libro di testo cementato al centro dell’universo scolastico. Al libro di testo solido, scultoreo, fermo, resistente. All’impavido baluardo contro le ventate leggere e seducenti di tablet e nuvole.

In fondo, il libro di testo è il comodo feticcio per insegnanti pavidi, l’insipido surrogato del sudore di bottega, la vetusta cifra dell’uomo goutemberghiano, l’illusione antropologica di scansie d’acero e d’abete. L’inutile fucina d’inutile tuttologia allineata e coperta.

E domani sceglieremo il nuovo libro di letteratura. Millanta volumi che promettono d’immillarsi in altri millanta volumi digitali da scaricare su millanta piattaforme mobili e rutilanti. Un libro denso di sentieri e labirinti sconsolanti. Dove qualche sfilacciato filo narrativo verrà sfarinato, sminuzzato, tagliuzzato da indici e scalette, schemi e titoletti, figure e filetti, mappe e quizzettoni, note, richiami, rimandi, grassetti, sfondi. E naturalmente link (altrimenti mica potrebbe definirsi libro misto, come vuole la carrozza).

E domani sceglieremo il nuovo libro di letteratura. Cambieremo ancora perché non cambi nulla.

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La scuola per gli scout

Un gruppo scout della mia (bellissima) cittadina, mi ha fatto un’intervista sulla scuola. Che propongo anche qui…

quali crede che siano gli obbiettivi della scuola? cosa si deve ottenere attraverso l’educazione scolastica?

La domanda richiederebbe una risposta molto articolata, perché naturalmente gli obiettivi sono diversi a seconda del livello di scuola. In termini generali, comunque, si può dire che la scuola – in sinergia con tutte le altre agenzie formative (famiglia, gruppi sportivi, oratorio, parrocchia, amici, eccetera) – serve appunto ad educare, a far crescere la persona (e il gruppo-classe) negli aspetti fondamentali della vita: la ricerca di un senso da dare alla propria esistenza, l’acquisizione critica di un solido capitale culturale, l’appropriazione degli strumenti adatti per diventare cittadini attivi e responsabili, la capacità di inserimento professionale. Nel suo percorso di apprendimento un ragazzo dovrebbe acquisire:

  • una discreta disinvoltura comunicativa (in italiano e in inglese)
  • solide competenze in matematica, scienza e tecnologia
  • una consapevole competenza digitale (la scuola oggi dovrebbe impegnarsi molto nella media education)
  • convincenti competenze sociali e civiche.

Alla fine del suo percorso scolastico, insomma, un ragazzo dovrebbe essere un buon cittadino, dovrebbe saper comunicare con efficacia utilizzando tutti gli strumenti a disposizione, dovrebbe avere spirito di iniziativa e, soprattutto, dovrebbe aver imparato ad imparare.

è soddisfatto del sistema scolastico italiano o cambierebbe qualcosa?

Non sono assolutamente soddisfatto del sistema scolastico italiano, e quindi – se avessi la bacchetta magica – cambierei molte cose. Intanto farei sparire le medie che sono la vera anomalia del nostro sistema. Lascerei un ciclo primario di 6-7 anni dove i ragazzi acquisiscono le competenze basilari secondo una didattica laboratoriale (improntata all’apprendimento attivo, al costruzionismo e al costruttivismo) senza la frantumazione disciplinare tipica delle nostre medie. Subito dopo i ragazzi, in base alle competenze acquisite (alle loro attitudini e ai loro interessi), dovrebbero scegliere un percorso liceale (di 4-5 anni) che presenti alcune specificità disciplinari (area scientifica, area umanistica, varie aree tecniche).

Abolirei il valore legale del titolo di studio, le bocciature e le rimandature. Alla fine del percorso liceale la scuola dovrebbe rilasciare solo una certificazione delle competenze. La selezione viene demandata in entrata all’Università (o nel mondo del lavoro).

Inoltre andrebbe rivisto tutto il meccanismo di reclutamento degli insegnanti (e dei dirigenti) che dovrebbero in ogni caso essere valutati periodicamente.

Io sogno, insomma, una scuola che insegni a vincere e non solo a partecipare (Don Milani prendeva gli studenti a calci in culo, se necessario), una scuola fatta di studenti e non di scolari, una scuola animata da insegnanti e non da impiegati della pubblica istruzione, una scuola democratica.

E una scuola democratica è una scuola che da a tutti le possibilità di costruirsi un futuro, è una scuola che funziona, è una scuola che fa studiare e che regala ai ragazzi il sottile piacere della sofferenza.

La realtà scolastica di Formigine (con la costruzione di due scuole elementari ) crede sia una bella realtà?

Formigine, oltre ad essere una delle cittadine più belle della nostra provincia, rappresenta anche una delle realtà più avanzate anche dal punto di vista scolastico. Formigine è uno dei pochissimi comuni che nonostante la crisi ha costruito due nuove scuole belle ed antisismiche. E questa è un’ottima opportunità per i nostri ragazzi perché sappiamo bene che studiare in un ambiente confortevole e funzionale è molto più motivante ed efficace che studiare in un luogo poco adeguato. Dobbiamo sempre ricordarci, però, che la scuola la fanno soprattutto le persone (studenti, docenti e personale ata) e che i luoghi hanno un’anima solo se fra quelle pareti si sono costruite esperienze significative e solidi ricordi.

Lei contribuisce con il suo mestiere a migliorare la qualità dell’insegnamento nelle scuole? come?

Io non so se contribuisco a migliorare in qualche modo la qualità dell’insegnamento. Ci provo. cercando di disseminare nell’aria germogli di passione, frammenti di cultura, dubbi critici, competenze. E, soprattutto, operando con l’esempio.

Riguardo alle ultime rilevazioni del’OCSE-PISA e all’importanza che viene data nella formazione fin dalle scuole primarie delle competenze logico-matematiche, non crede si tenga troppo poco conto degli alunni in quanto persone con emozioni e stati d’animo…   La scuola Italiana viene spesso considerata all’ultimo posto rispetto a questi parametri, si parla troppo poco della capacità di inclusione e di integrazione della nostra scuola come nessun altra in Europa, lei cosa ne pensa?

Io sono abbastanza in linea con le aspettative OCSE-PISA. Perché credo che il compito della scuola sia principalmente quello di dare delle competenze vere, solide, efficaci e spendibili. Anche e soprattutto in campo matematico e scientifico in genere. Non sono neanche così convinto che la scuola italiana si distingua per la capacità di inclusione e integrazione. Le statistiche OCSE-PISA (e non solo) dimostrano infatti che il successo scolastico è direttamente proporzionale all’estrazione socioeconomica dei ragazzi. E una scuola che non abbatte di fatto le differenze sociali, è una scuola che ha fallito la sua missione. Certo egualitarismo di maniera ha socializzato il cazzeggio e privatizzato le competenze.

[il figlio del professionista può anche sopportare 13 supplenti di italiano, zero ore di media education (educazione all’uso dei nuovi strumenti digitali), un docente d’inglese approssimativo, ore di educazione  passate a guardare fil o a parlare del più e del meno tanto l’italiano lo impara a casa, l’iPad ce l’ha a casa, l’inglese lo impara a Londra e lo sport lo fa al circolo di papà. È il moderno diseredato – poniamo: l’extracomunitario? – che se l’italiano non lo impara a scuola, il tablet non ce l’ha a scuola, l’inglese non lo pratica a scuola l’educazione fisica non l’impara a scuola… rimarrà diseredato].

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Barbari digitali e analogici Bizantini

Magico pomeriggio oggi a Forlì. Belle parole dalle autorità. Belle parole dai dirigenti. Belle parole dai ragazzi. Intensità, commozione, calore per il ricordo di Beatrice. Curiosa e competente performance di Roberto Baldascino. E… c’erano anche le mie elucubrazioni. Ecco le slide con cui ho provato ad accompagnare rapide parole:

Barbari digitali e analogici Bizantini

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…e il naufragar m’è dolce in questo mare

L’infinito (e oltre)

 Ci sono stato su quel colle. In un’estate pallida e sorridente. Scalando lento i tornanti con la vecchia bici da montagna. Sono approdato silenzioso in una piazza antica. Ho legato la bici e sono andato a curiosare. Fra i libri antichi di Monaldo. Fra le pietre, e le grate, e i pensieri che imprigionavano il poeta. E poi, a passi radi e trasognati sono sceso trattenendo il fiato nell’attiguo parco. E ho passeggiato sul sentiero. E sul prato secco e dilavato. E mi sono seduto, dietro un resto di cipresso. Dove s’intravvedeva all’orizzonte il mare, sfumato ancora nella nebbia mattutina. Non c’era musica di vento. Solo un alito d’antico che disegnava fughe di colline e d’indovinate valli. E nell’anima colavano in silenzio i prediletti versi…

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura.  E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei.  Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

La poesia dovrebbe sempre udirsi nel silenzio di luoghi densi di auspicate sensazioni. E non a scuola. Dove il silenzio è imposto, l’aria è contraffatta e le anime sono temporaneamente spente. Dietro rosari di giornate recitate senza passione. Né gratuite bellezze. A scuola la poesia s’uccide con raffiche di note. Così…

Se sfogli il tuo libro, a fronte di questi quattordici endecasillabi sciolti, troverai appunto colonne di chiose e note, che ti tranquillizzano sul fatto che ermo vuol dire solitario e che il colle in questione è il monte Tabor, un’altura nei pressi del palazzo Leopardi, dove il poeta si recava spesso a passeggiare. E poi che… il guardo esclude sta ad indicare che la siepe impedisce alla vista di vedere tanta parte dell’estremo (ultimo, latinismo) orizzonte. E che sedendo e mirando

Come si può dedurre anche da una prima lettura – magari aiutandoti appunto con le note – il nucleo tematico di questo idillio è costituito dal contrasto fra i limiti fisici imposti dalla realtà materiale e gli sconfinati orizzonti del pensiero e dell’immaginazione. Seduto (o comunque fermo) nei pressi di un colle meta delle sue abituali passeggiate, davanti a una siepe che gli impedisce di vedere gran parte della linea dell’orizzonte, il poeta fa scattare una sorta di “vista interiore” che gli permette di spaziare con l’immaginazione oltre quegli ostacoli. Ed egli immagina dimensioni sconfinate, segnate da un silenzio e da una quiete che nulla hanno di umano. Queste sconfinate dimensioni, però, non riguardano solo lo spazio, ma anche il tempo. L’infinito a cui tende Giacomo, dunque, è un infinito spazio-temporale: un infinito (spazio senza confini) che si fonde con l’eterno (tempo senza limiti); un infinito, comunque, che non può trovare una rappresentazione concreta nella realtà.

“La lirica si pone pertanto sul piano privilegiato della visione, sia nel senso di puro atto del vedere, sia in quello del soggettivo fantasticare. E il ritmo indistruttibile della vita e della morte, del presente che si fa passato, delle epoche storiche che si susseguono, rimanda a un’immensità che il debole pensiero umano non può controllare né comprendere: esso può averne solo una nozione indefinita, che si traduce in un senso di spossato smarrimento, nel dolce naufragio dell’identità individuale in quel Nulla cosmico che custodisce le verità ultime dell’esistere e del morire.”

In un pensiero del luglio 1820, Giacomo riprende le tematiche di questo idillio, rilevando che “alle volte l’anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi mo-di, come nelle situazioni romantiche. La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione, e il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario” (Zibaldone, I7I).

L’alternanza fra infinito spaziale e infinito temporale è sottolineata anche dalla particolare architettura della lirica. Il testo si struttura, infatti, in due tempi che occupano simmetricamente sette versi e mezzo ciascuno e che corrispondono appunto alle due diverse “immaginazioni” dell’infinito spaziale e dell’infinito temporale. Il primo tempo (Sempre caro… non si spaura) della poesia scaturisce da

  • una sensazione visiva impedita (la siepe, infatti, impedisce allo sguardo di spingersi sino all’ultimo orizzonte)
  • far scattare, nella mente del poeta, il “fantastico”, l’immaginazione di mondi sconfinati. Questo tuffo nell’immaginazione, a sua volta,
  • provoca nel poeta una sensazione forte, uno stato d’animo di inquietudine e paura (ove per poco il cor non si spaura).

Il secondo tempo della poesia, invece, nasce da una

  • sensazione uditiva (il vento odo stormir…) che
  • fa scattare, nella mente del poeta, l’idea dell’infinito temporale, dell’inesorabile fluire del tempo che oscilla fra epoche passate (finite) ed un presente destinato a finire (e mi sovvien l’eterno e…). A sua volta anche questo volo della mente
  • provoca nel poeta un’altra sensazione forte, un altro stato d’animo; ma non più uno stato d’animo di paura, bensì uno stato d’animo d’inebriante, serena dolcezza (il naufragar m’è dolce…).

Se in un primo momento, dunque, l’io del poeta, di fronte all’incommensurabile mistero dell’infinito, avverte un senso di sgomento e di vertigine, in un secondo momento, dopo un ulteriore abbandono al fascino dell’immaginazione, il suo io trova una inebriante e totalizzante sensazione di pace e serenità.

Questo componimento nasce, forse, dal ben noto stato di esclusione del poeta. Non penso tanto al senso di esclusione occasionale provocata dalla siepe (che “lo esclude” dal resto del mondo-orizzonte), quanto piuttosto a quel senso di esclusione che gli deriva dalla sua situazione interiore, da quella sua incapacità di partecipare compiutamente al reale. Subito, dunque, confrontando i suoi limiti esistenziali con l’infinito sconfinato, il poeta prova un sentimento di paura e smarrimento; ma poi, come per magia, il poeta si avvicina all’infinito (o l’infinito si avvicina al poeta) e egli si sente improvvisamente di far parte di quell’infinito tutto (o di quell’infinito nulla).

Questa sottile operazione di avvicinamento fra poeta ed infinito (o viceversa) è probabilmente sottolineata anche dall’uso sapiente degli aggettivi indicativi (questo, quello). In un primo momento, infatti, tutto ciò che richiama l’esperienza reale è indicata con questo/a (quest’ermo colle… questa siepe… queste piante… questa voce…)  mentre ciò che rimanda all’infinito è indicato con quello (quello infinito silenzio…); negli ultimi versi, però l’infinito e la sua immagine vengono indicati con questo/a (questa immensità… questo mare…). Insomma: l’infinito, prima, è avvertito come qualcosa di lontano, di estraneo, di inquietante (quello infinito…), poi è sentito come qualcosa di vicino, di attraente, di inebriante (questa immensità…).  Si è quindi rovesciata la situazione iniziale in cui gli oggetti presenti e reali (il colle, la siepe, le piante…) erano contrapposti all’arcana lontananza dell’infinito. L’immensità è ora presente e viva.

Si potrebbe dunque dedurre che Leopardi parta ancora una volta dalla considerazione sull’infelice situazione dell’uomo, un’entità minuscola e fugace: di fronte all’ineluttabile realtà della sua pochezza, l’uomo sensibile non può che provare sgomento e dolore; ma grazie alla sua immaginazione egli può evadere da questa cinica realtà, dimenticare per un attimo il suo crudele destino, ed annullarsi in un mare d’oblio. Il naufragare è dolce, quindi, perché coincide con il prevalere dell’immaginazione poetica che è forse l’unica illusione che può confortare l’uomo.

Si potrebbe…

Ma siamo ormai andati troppo oltre, ed è meglio fermarsi qui. Perché sforzandoci di interpretare a tutti i costi il messaggio leopardiano, rischiamo di fare una lettura forzata della lirica e finiamo per fare un cattivo servizio al poeta. Perché il fascino di questa poesia perfetta sta proprio nel suo incantevole non so che di vago, di lontano, di indefinito… Nel fascino di quel dolce naufragio in un mare senza fine.

[In sintesi] Una poesia lirica tende a trasmettere sensazioni, suggestioni, vibrazioni, stati d’animo… che il poeta prova in un momento particolare, di fronte ad una situazione particolare. Qui, Leopardi si trova a riflettere sull’infinito, e cerca di trasmetterci le sue sensazioni a riguardo. L’infinito è indefinibile per definizione. Noi possiamo avere una sensazione dell’infinito solo per contrasto. In questo caso è l’osservazione di un limite concreto (la siepe) che per contrasto porta Leopardi a riflettere su ciò che limiti non ha: l’orizzonte, il cielo, l’infinito appunto. E questa visione dell’infinito appare come per magia all’occhio e all’orecchio del lettore attento: quei due gerundi (sedendo e mirando) che rallentano e dilatano il tempo dell’azione; quei termini lunghi e ripetuti (interminati, sovrumani, profondissima) che amplificano lentamente le dimensioni della visione; la scelta dei termini che della visione disegnano in maniera quasi impalpabile sia la dimensione orizzontale (interminabili) che quella verticale (profondissima); l’insistenza fonica sulla vocale /a/ (mirAndo, interminAti spAzi, sovrumAni, profondissimA) che apre ulteriormente gli spazi immaginati; la scelta dei plurali (interminati spazi, sovrumani silenzi) che moltiplica ancor di più le sensazioni di infinito; il ritmo lento, ma fluido che si spande nell’aria come un’eterea colata lavica. E lentamente, ma inesorabilmente, la sensazione di infinito s’insinua, e s’allarga, e s’amplifica nella mente e nell’animo fino a provocare fredde sensazioni di attesa, di inquietudine, di paura.

Sensazioni di attesa, di inquietudine e di paura che talvolta m’assalgono di notte, in campagna, in un esteso silenzio. Un silenzio intenso e profondo che è più facilmente percepibile, in mezzo alla natura, quando è scandito, magari, da un piccolo rumore: il lontano latrato di un cane, il lamento di una rana, il sibilo del vento fra le foglie. Ed è un po’ quello che capita a Leopardi nella seconda parte della poesia. Il rumore del vento fra le fronde gli fa avvertire, ancora per contrasto, l’infinito silenzio. Un infinito silenzio che, per analogia, lo fa riflettere sull’infinito temporale: su un tempo infinito: sull’eternità. E questo infinito temporale si fonde intensamente con l’infinito spaziale: la seconda parte della poesia si fonde intensamente con la prima: e l’ipnotica visione dell’infinito spazio-temporale sembra inghiottire ed annullare nel suo immenso buco nero ogni cosa: ogni cosa del presente, ogni cosa del passato, ogni cosa del futuro. Anche il male di vivere trova finalmente la sua pace.

(questa è una integrazione al mio libro: 4 passi nella letteratura)

Scopri il MIO libro: http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=1011017

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Tablet & Nuvole

La sostenibile leggerezza della rivoluzione digitale

Articolo pubblicato su “Viaggio in Terza Classe”     (sfoglia on line)

Dalle inquiete soglie delle sale insegnanti e negli spazi amplificati dei media si lanciano spesso grida agitate sull’insipienza culturale delle nuove generazioni. Si descrivono ragazzi sempre più in difficoltà a galleggiare fra la schiuma indistinta dei saperi digitali, sempre più sovraesposti ai linguaggi sincopati di propaggini elettroniche, sempre più estranei al pensiero sequenziale. Se il rischio dell’information overload è reale, la scuola – consapevole peraltro di aver perso il monopolio dell’informazione e dei modi di apprendere – deve imporsi come agenzia di sintesi e di ricomposizione olistica della possibile frammentazione cognitiva. Deve insegnare a gestire l’enorme flusso di informazioni che arriva della rete, per guidare gli alunni verso un pensiero strutturato e critico. È questo un impegno – etico e civico, prima ancora che professionale – fortemente auspicato anche dalle Indicazioni nazionali per il curricolo che assumono la perizia digitale come una delle competenze-chiave per l’apprendimento, raccomandano l’utilizzo consapevole delle tecnologie nella quotidiana prassi didattica e sanciscono che la “diffusione di tecnologie di informazione e di comunicazione è una grande opportunità e rappresenta la frontiera decisiva per la scuola”.

Una “grande opportunità”, appunto. E lo sforzo richiesto a noi insegnanti per raggiungere questa “frontiera decisiva” è soprattutto quello di capire che non è più tempo di fare gli apprendisti stregoni e di porci come l’avanguardia illuminata pronta a guidare il cambiamento. Ma che è tempo ormai di prendere semplicemente atto che il cambiamento è già avvenuto. Che il processo rivoluzionario si è ormai concluso. E che a noi non resta che trovare la saggezza, il coraggio e l’umiltà di adattarci alla nuova normalità disegnata dal digital lifestyle. Perché al di là di certi effetti collaterali e degli inevitabili problemi di assestamento, quella digitale è una rivoluzione buona e giusta. Una rivoluzione intrigante, leggera, inclusiva ed ecocompatibile. L’unica rivoluzione civile di questo periodo inquieto ed inquietante.

Del resto chi, come noi, ha la fortuna di mescolarsi quotidianamente a centinaia di ragazzi che googlano, youtubano, twittano, taggano, condividono, messaggiano, chattano e deambulano perennemente appesi alle cuffiette dell’ultimo smartphone non può che prendere atto con sorridente curiosità di questa mutazione antropologica che genera nuovi comportamenti, nuovi linguaggi, nuove narrazioni, nuovi sensi. Nuove avvincenti opportunità di abitare il tempo e lo spazio.

L’accelerazione finale di questa rivoluzione garbata si deve all’adozione generalizzata dell’interfaccia touch e alla conseguente disseminazione di una nuova generazione di device di cui l’iPad è l’indiscusso totem. E il tablet, appunto, è l’arma finale con cui i mutanti che respirano con le branchie di google colonizzeranno prima o poi anche gli analogici feudi scolastici. Perché il tablet è intelligenza, leggerezza, curiosità, bellezza, divertimento. Perché il tablet è immediatezza: lo tocchi e sei operativo (in classe, in piazza, in aereo, in balcone, a letto).

Il tablet si apre come un diario, si usa come un quaderno, si legge come un libro, si appoggia in ogni dove (sulle ginocchia, sul banco, sullo scalino, sul piumone), si ripone in qualsiasi zainetto. Con il tablet la scrittura diventa fluida e vaporosa. Con il tablet la lettura diventa facile e coinvolgente: si può orientare la pagina, ingrandire i caratteri, regolare la luminosità, sottolineare, evidenziare, chiosare, commentare, condividere, tradurre, ricercare.

Un tablet fa da biblioteca, da astuccio, da block notes, da laboratorio linguistico, da enciclopedia, da atlante, da dizionario. Con il tablet puoi disegnare, fotografare, filmare, registrare, ascoltare e fare musica. Con il tablet puoi tessere intriganti relazioni sentimentali: puoi leggere Leopardi ascoltando Chopin e sfogliando di tanto in tanto le malinconiche vedute di Frederich. Con il tablet navigare, creare, condividere è un gioco da ragazzi.

E poi ci sono le “nuvole”, in cui possiamo albergare buona parte dei nostri sogni e della nostra memoria. Sulle nuvole possiamo archiviare aforismi, poesie, romanzi, immagini, musica e video, per averli a disposizione sempre, comunque, ovunque. E su qualsiasi dispositivo. Grazie al cloud computing la propria libreria musicale o le foto delle vacanze, i compiti di italiano o gli appunti di filosofia possono essere caricati nella nuvola da un pc da tavolo, per poi essere scaricati e ascoltati o visionati su un tablet o su uno smartphone.

Ecco: l’unico vero concorrente del tablet è lo smartphone, soprattutto per i ragazzi che al momento lo trovano più mobile e più trendy. Anche perché uno smartphone sta più facilmente in tasca ed è più facile da mimetizzare sotto il banco o dietro l’astuccio mentre si chatta con l’amico alle spalle dell’insegnante che recita la sua accademica lezione. Ma fra uno smartphone di 5-6 pollici e un tablet di 7-10 pollici la differenza è minima e la sostanza è la stessa. Ci troviamo in ogni caso di fronte ad un talismano che marca definitivamente la dissonanza fra chi ha immaginato il mondo passeggiando fra carte, libri e biblioteche e chi è nato con il mondo in mano.

Va da sé che i due mondi non sono necessariamente escludenti: ci saranno sempre ragazzi che andranno a studiare in biblioteca con gli amici, che ameranno passeggiare per i chiostri antichi e che sfoglieranno con ammirazione libri preziosi e codici miniati. Solo che avranno con sé un Galaxy o un iPhone per fotografare, filmare, fotocopiare, prendere appunti, condividere sensazioni ed emozioni con amici sparsi per l’universo mondo. Perché i barbari digitali vanno fieri delle loro futuribili alchimie, ma non ambiscono ad assassinare il bello creato nei secoli dalle tribù gutemberghiane. E così dovrebbe succedere fin da subito nelle nostre aule: le nuove tecnologie non devono necessariamente fagocitare (tutte) le vecchie, ma dovrebbero almeno poterle affiancare, supportare, integrare, amplificare. È tempo, ormai, che tablet e nuvole abbiano a scuola almeno gli stessi diritti della penna e del gesso. E che i nostri ragazzi possano mettere nello zaino, assieme alle merendine, a qualche libro e all’astuccio, anche l’iPad.

Mi si dirà che il ministero e le altre istituzioni deputate stanno facendo sforzi titanici per diffondere nelle scuole il nuovo verbo digitale. Per il momento, però, nonostante proclami e convegni, l’unica tecnologia presente nella maggior parte delle classi è il cellulare che i ragazzi tengono falsamente spento in tasca o sotto il banco.  E se è vero che in molte scuole sono arrivate o stanno arrivando quantità industriali di LIM, è altrettanto vero che sono pochissimi gli insegnanti che le sanno usare. E che molti di quei pochi le usano in maniera impropria, per trasmettere contenuti, per fare vedere filmati e cose, per perpetrare di fatto la comunicazione uno-molti. In numerose aule le mitiche lavagne interattive si riducono in sostanza a banali superfici di proiezione per vecchi documentari o per stucchevoli sequenze di slides che dispensano i saperi sbriciolati nel grigiore degli elenchi puntati. O, nella migliore delle ipotesi, per erogare puntate di lezioni preconfezionate (learning object) con il relativo software proprietario. Altro che partecipazione, interazione e condivisione: alla leggerezza dell’intelligenza diffusa e condivisa si preferisce ancora una volta l’artiglieria pesante della logica frontale e trasmissiva. E la nuova tecnologia si presta così a fungere da inconsapevole tutela della vecchia didattica.

Non voglio con questo condannare senza appello le LIM, che sono in effetti marchingegni flessibili  e potenti, in grado di rendere comunque le nostre lezioni più attraenti e performanti. Ma se abbiamo modo di influire sulla definizione del nostro setting d’aula e non vogliamo proprio rinunciare alla LIM (magari perché ce la “regala” il ministero) prevediamo almeno che il grande schermo si possa interfacciare facilmente con i device mobili in mano agli studenti (non importa se della scuola o se di loro proprietà). Così anche i ragazzi, dalla loro postazione, potranno interagire con la lavagna e rendere più significativi i momenti di cooperazione e condivisione.

Perché i nostri ragazzi sono nativamente – e inconsapevolmente – portati ad imparare facendo, ad apprendere fra pari, ad usare interfacce interattive, a co-produrre contenuti sulla rete. E fanno fatica a limitarsi solo all’ascolto, a prendere appunti, a copiare dalla lavagna. D’altra parte noi docenti, anche quando subiamo il fascino delle meraviglie digitali, facciamo fatica ad adattare il nostro stile di insegnamento al loro stile di apprendimento. Eppure questo matrimonio fra diversi abiti mentali s’ha da fare. Pena la noia, la reciproca lamentazione e l’ulteriore impoverimento del dialogo educativo.

Cominciamo dunque dalla azione più semplice: prendere atto che quelle cose lì (tablet, smartphone, nuvole, app…) ci sono, sono belle, sono leggere, sono sorridenti, sono potenti e si possono usare anche a scuola. Il quando e soprattutto il come si possono e si devono usare lo stabilirà di volta in volta l’insegnante nostromo che deve saper governare la nave (classe) e la ciurma (ragazzi) dentro questo mare affascinante e tempestoso della conoscenza reticolare.

Ma proprio qui sta il nodo della questione: avere docenti all’altezza della svolta epocale di cui la rivoluzione digitale è solo una delle principali sfaccettature. Per questo è necessario ridare centralità alla figura del docente. Rivedere radicalmente il suo ruolo. Perché i gadget elettronici non sono la panacea di tutti i mali e da soli non bastano per riqualificare il processo formativo. Non esistono infatti tecnologie educative. Esistono educatori che usano le tecnologie – vecchie e nuove – per promuovere apprendimento.

E il problema della scuola non è la mancanza di tecnologia, ma è la mancanza di neuroni condivisi, di insegnanti aggiornati, di visioni pedagogiche adeguate, di strategie didattiche chiare. E in queste condizioni, la disseminazione bulgara di LIM (lavagne tutte uguali, con software proprietario che disegna pillole di lezioni tutte uguali, ed eventuali device tutti uguali con app tutte uguali) è inutile e talvolta dannosa: se il maestro-nostromo non domina i venti del web e non padroneggia gli strumenti di navigazione rischia di tracciare rotte devianti, d’impaludarsi nelle secche o, nella migliore delle ipotesi, di adagiarsi pigramente in una bonaccia perenne che spinge i ragazzi-marinai a fare qualcosa solo per ingannare il tempo, e non per navigare più o meno spediti verso obiettivi chiari ed ambiziosi.

Il tablet da solo non basta, dunque. I gadget elettronici sono investimenti inutili se non vengono inseriti in un processo formativo completamente rivisitato. Perché, ancora una volta, ciò che serve non è una rivoluzione tecnologica (peraltro già presente nelle tasche e nelle camerette dei nostri ragazzi), ma una rivoluzione culturale che incoraggi i docenti ad essere un po’ meno impiegati della conoscenza e un po’ più maestri di bottega. E che li renda consapevoli del loro indispensabile ruolo di co-costruttori di significato. Perché un bravo docente deve sapersi muovere con sicurezza negli ambiti disciplinari di competenza, deve progettare percorsi didattici organici e coerenti, deve occuparsi della solidità dei contenuti, ma deve anche saper riconoscere e sfruttare didatticamente i fantastici valori aggiunti della nuova dimensione culturale disegnata da reti, tablet e nuvole.

Solo così la scuola potrà finalmente valorizzare le insospettate potenzialità dei nostri ragazzi che hanno una predisposizione istintiva alla multimedialità e al melting pot, che sanno raccontare e raccontarsi per immagini, che manipolano senza remore materiali presi dal web per moltiplicarne implicazioni e possibilità espressive. E che hanno una straordinaria vitalità nel condividere e intrecciare pluralità infinite di legami multiformi.

E solo così la scuola saprà contrastare i rischi cognitivi di quei ragazzi che, abitando spazi socioculturali più deboli, non riescono ad arginare la marea quotidiana di input disgregati, utilizzano le propaggini elettroniche con faciloneria e superficialità, sono in palese deficit di autonomia critica e partoriscono pensieri frammentati.

Perché, come ricordavo all’inizio citando le Indicazioni, tocca alla scuola smussare le disuguaglianze, difendere spazi di riflessione, far crescere consapevolezze, allenare il pensiero sequenziale, tessere trame olistiche, recuperare fili narrativi e costruire competenze. Sia analogiche che digitali. Perché una testa ben fatta, oggi, si favorisce solo nella fusione fra i due modi di abitare il mondo.

Articolo pubblicato su “Viaggio in Terza Classe”     (sfoglia on line)

 

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